Hammamet ripropone la lunga tradizione del cinema italiano sui temi della politica del passato ma anche dell’attualità più recente. Il film è uscito, dopo Il Traditore di Marco Bellocchio, nel periodo post natalizio, finalmente caratterizzato da pellicole italiane di maggiore spessore artistico e sociale, rispetto agli anni scorsi.
Il progetto del regista Gianni Amelio ha creato aspettative e discussioni, soprattutto per il carisma del protagonista, Bettino Craxi, tra i politici più chiacchierati di fine Novecento, e per la sua storia ricca di tanti chiaroscuri. Proprio le vicende che hanno caratterizzato la parte finale della sua vita pubblica hanno condizionato giudizi e recensioni. Infatti, sia lo spettatore, che tanti critici hanno immaginato di assistere a un saggio storico, mentre il regista ha preferito raccontare aspetti umani e personali del protagonista nei drammatici ultimi sei mesi di vita. Così, giudizi e recensioni si sono preoccupati più di questioni giudiziari e meno dell’immagine ribelle (celebrata con l’apertura e la chiusura riservata al ragazzino monello che infrange i vetri con una fionda) e forte del protagonista. Ma anche il carattere vorace di Craxi è stato spesso sottovalutato, quando invece è tornato utile ad Amelio per completare l’immagine di un uomo forte e deciso, ma anche arrogante e controverso. La visita ad Hammamet di un personaggio democristiano, in questo senso, rappresenta il momento più alto della descrizione fatta dal regista, come la lettera lasciata in eredità dal compagno di partito al proprio figlio, che poi viene letta a Craxi stesso.
La rabbia per la malattia e quella di sentirsi vittima di un sistema che l’aveva abbandonato a se stesso si mischiano, fino a sancire definitivamente la fine dell’apoteosi del politico e l’inizio della decadenza dell’uomo. Qui emerge la conferma di un film più sull’uomo Craxi che non sul politico, come risulta dalla scena in cui dal vetro rotto dal bambino Craxi (simbolo di un equilibrio storico spezzato) si entra nella sequenza del congresso, il momento più alto che coincide con l’inizio della fine.
Un altro elemento che non viene colto nella maggior parte dei commenti tutti ad indirizzo politico sul film è il rapporto padre e figli. Una tematica sempre presente nella filmografia di Gianni Amelio e che non poteva mancare in questo. Da questo punto di vista, Amelio, regista sempre realistico, per la prima volta dà spazio a immagini oniriche assolutamente inedite: quella di Craxi che cammina a piedi scalzi sulle guglie del Duomo di Milano, incontrando il padre, e quella del cabaret napoletano, come se il suo agire politico, alla fine travolto dagli eventi, si riduca a squallido avanspettacolo di morte.
La critica di una regia lenta è una conseguenza dalla eccessiva abitudine a video pubblicitari e televisivi. Il film riflessivo è per forza un film “lento”, non può avere un linguaggio oggi più comune a dei film spettacolari o d’azione.
Pierfrancesco Favino è un super Pierfrancesco Favino. Noi, che abbiamo partecipato alle riprese in Franco Tosi per il congresso socialista, siamo rimasti sbalorditi dalla somiglianza nel fisico, nella gestualità e nella voce. Alcune scene sono state ripetute più volte, per necessità di montaggio. Favino era sempre identico. Incredibile, al punto da muovere la commozione non solo degli storici socialisti presenti in veste di comparse e da chiudere le scene con applausi da stadio. Dopo l’incitamento dettato dal copione “Bettino, Bettino”, allo stop del regista, è esploso uno spontaneo “Favino, Favino”.
— Celeste Colombo